Incontro sulla Violenza


Incontro con ragazz* appartenenti ai collettivi di alcune scuole superiori

Qualche tempo fa, prima che il fatto che circa 50 persone potessero incontrarsi e riunirsi in un salone e prima che leggere il labiale di ciascun presente fosse un attentato alla salute; prima che condividere il proprio spazio e scambiarsi sorrisi liberi da mascherine fosse considerato pericoloso; ecco, proprio poco prima che partecipare a un'assemblea fosse proibito dalla legge, era stato avviato un ciclo di incontri in cui gli studenti potessero scambiare i loro pensieri e farsi domande sui rapporti interpersonali.
In occasione del ciclo di incontri, cene e dibattiti organizzati da e con alcuni collettivi studenteschi con il collettivo del LSOA Buridda viene invitato il Non Collettivo Queer per parlare delle possibili forme di violenza, e quindi aprire una riflessione su un tema che a noi sta a cuore: il Consenso.

Gli studenti hanno lo spazio e la possibilità di iniziare il dibattito sulla violenza, una cosa di cui abbiamo sentito parlare tanto tutt*, ma di cui molti aspetti vengono dati per scontati, tematiche su cui vale la pena aprire un dibattito. Ognun* può dire la propria opinione o raccontare un'esperienza personale vissuta in prima persona o per via indiretta. Non si tratta di una lezione (specie da parte de* membr* più adult* dei collettivi che hanno organizzato l'evento), ma piuttosto di un confronto in linea con quello che è il nostro spazio, ossia partire da alcuni spunti di riflessione.

Qual è la definizione di violenza? Quali possono essere i vari modi per gestirla? Quasi tutt* sono concordi nell'affermare che si tratti di un concetto molto personale.
Ognun* pensi al momento in cui può aver assistito ad una dinamica violenta, ma in che senso? Qual è il significato che ognun* dà alla violenza? Ognun* ha la propria storia e di conseguenza riconosce il proprio livello di violenza, e dunque il proprio limite del consenso.
Tutt* ammettono di avere, a volte, messo in atto dinamiche o atti violenti, oltre ad averli subìti, e dall'incontro si aspettano di scoprire i motivi per cui questa spesso non viene riconosciuta, o passa inosservata. Più che violenza banalizzata, diventa qualcosa di normalizzato e abituale.

"Il consenso al contatto fisico non è sempre da dare per scontato. C'è poca chiarezza riguardo i confini del consenso, che sia materiale o verbale."
"Ho assistito e subìto azioni, vissute con disagio, ma non riconosciuti come atti di violenza se non in un secondo momento, in seguito a un confronto con altre persone."
"Chi assiste a una dinamica violenta spesso non è in grado di intervenire, perché non si è sempre preparat* ad affrontare, in qualità di terz*, da spettatori/spettatrici, un episodio di questo tipo."
"La cosa più brutta che ci sia è, oltre all'atto in sé, il sentire il peso di questa violenza, per poi raccontarlo a una persona che ne sottovaluta la gravità, minimizzandolo."

Soprattutto le ragazze lamentano inoltre di essere state spesso sessualizzate e colpevolizzate per come si vestono.

"Ho vissuto con disagio l'aver subìto questo tipo di violenza in discoteca o alla fermata dell’autobus... sentendomi altrettanto ferita dall'indifferenza di chi ha assistito all'episodio in questione."
"La violenza sessuale inizia dagli sguardi, dal contatto non richiesto. La violenza, quindi, nasce quando finisce il consenso."
"Non sempre ciò che è indesiderato equivale a violenza, ma un episodio del genere può rovinare una serata, anche se talvolta può passare indifferente."
"Se si fa un commento indesiderato, come posso capire dove sta il limite dell’indesiderato?"

In realtà, non sappiamo sempre cosa ci ferirà in un determinato momento. Non si pensa più alla personalizzazione della violenza: non si può dare un canone alla violenza, ma è un concetto troppo soggettivo, che può variare col passare del tempo. Se non ci si pone neanche il problema, la violenza è percepita come più grave. È importantissimo l’ascolto, non solo durante l’atto verbale, ma anche nel saper captare quali sono i limiti del consenso, senza doverlo rendere esplicito verbalmente.

Secondo un membro di uno dei collettivi "ospitanti", "serve di base un certo tipo di educazione, in quanto è radicato preventivamente il concetto di dover stare attent* alla violenza, mentre dall'altro lato manca totalmente un’educazione mirata al non risultare violent*".
"Tutto è il risultato della cultura patriarcale – in Italia, fino al 1981 la persona che metteva in atto uno stupro, era legittimata a sposare la sua vittima; stesso discorso vale per il diritto d’onore."

A., una delle organizzatrici dell'incontro, consiglia la lettura di “Dalla parte delle bambine”, in cui viene esplicitato come la socializzazione di genere inizi dalla nascita e sia castrante, non solo per le persone AFAB (= 'assigned female at birth', ossia nat* femmine).

Anche in ambito LGBTQIAPK, viene sollevata la questione che le persone trans vengono spesso invitate a nascondersi, in quanto ciò che può essere ridicolizzato merita di subire un qualunque tipo di violenza – anche se l’intento può essere anche quello di “proteggere” la persona trans.

Il concetto chiave è secondo alcun* quello di “empatia”, ossia la capacità di mettersi nei panni dell’altr*. Mentre dal punto di vista del linguaggio, "è meglio riappropriarsi di alcuni termini che hanno assunto un’accezione negativa o addirittura opposta alla sua definizione, un trend che sembra ormai normalizzato." Una studentessa afferma che, secondo la sua esperienza, "l'appellativo 'troia' è stato usato riferito a me, quando in realtà non ho voluto concedermi a questa persona".

Come spezzare questi meccanismi alla base? Con l’educazione, convertendo la rigida disciplina in conoscenza.

"L’empatia non è la chiave per comprendere qualcun* altr*, non è la base per non essere violent*. La vera base è l'autoconsapevolezza e il saper riconoscere i propri limiti oltre i cui si è di fatto violent*. Bisogna sintonizzarsi su sé stess* per agire in modo da non essere violent*."
"Spesso lo siamo, invece, a causa delle linee guida che abbiamo avuto davanti durante gli anni di formazione, ma se riusciamo a interiorizzare e a ragionarci sopra, è difficile che ci sia cattiveria."
"Si tratta comunque di un processo che può essere addirittura costruttivo, ma il tutto sta nell'intenzione, che fa da spartiacque tra ciò che è realmente violenza e ciò che non lo è."

Se il litigio è un semplice conflitto, può infatti essere costruttivo, ma se l’intento è quello di prevaricare e di sovrastare, allora si tratta di violenza. Generalmente, quando si parla di violenza, non si può prescindere dalle dinamiche di potere.

Spesso si parte con il parlare di violenza sessuale dettata anche dal sessismo, anziché della violenza psicologica, poiché è spesso molto personale e soggettiva per riuscire a formulare un’ipotesi che valga per la gran parte dei casi.

"Spesso si tende a sminuire gli atteggiamenti violenti subìti, quindi sarebbe meglio iniziare a chiamare le cose col proprio nome, in quanto in questo modo ci si rende meglio conto di quella che è la dinamica. Dall'altro lato, a volte si tende a ingigantire atti che in realtà sono, ad esempio, insulti casuali ed effettuati 'alla leggera'".

La mancanza di strumenti porta ad ingrandire il campo semantico di una parola in modo che questa diventi un insulto. Tante volte un atto di violenza può anche essere autodifesa, quindi qual è il limite tra difesa e prevaricazione? Qual è la scintilla che fa scoppiare la violenza? Spesso può appunto essere la paura di essere sovrastat* o prevaricat*, di perdere il proprio comfort?

Avendo appena sfiorato una tematica così vasta e complessa, sulla riflessione del Non Collettivo Queer: "A volte la violenza è una risposta sana seppure istintiva, nel momento in cui comunque ci preserva da potenziali dinamiche violente pur di salvare noi stess*. Anche se, in retrospettiva, ci si può rendere conto di aver potuto agire diversamente."

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